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Di cosa parliamo quando si dice “anoressia”

L'anoressia è un disturbo del comportamento alimentare che porta all'avversione al cibo. Perché è importante parlarne? Perché è una malattia in crescita, negli ultimi vent'anni è passata dallo 0,3% della popolazione fino al 2% (Keski-Rahkonen Anna, Hoek HW, Susser ES, Linna MS, Sihvola E, Raevuori A, Bulik CM, Kaprio J, Rissanen A., Epidemiology and course of anorexia nervosa in the community., in Am J Psychiatry., vol. 164, 2007, pp. 1259-1265), passando dal colpire soprattutto le donne tra i 15 e i 19 anni a espandersi nella fascia tra i 12 e i 25 anni, ma anche con casi al di fuori di questi intervalli.

 

È importante parlarne perché è una malattia psicologica che possiede il più alto tasso di mortalità tra le patologie mentali, dunque può portare a volte alla morte, e purtroppo si registrano casi simili sempre più spesso nel nostro Paese. Parlarne significa sensibilizzare verso il problema, significa far sì che non ci si volti dall'altra parte: vuole essere un gesto di amore per delle persone che hanno perso la voglia di vivere, e che meritano invece di essere felici.

Ma facciamo un passo indietro: qual è la storia dell'anoressia?

Pensate che già Galeno nel II sec. d.C. ne parlava come di un eccesso di bile nera, che sale al cervello e “rende freddi gli spiriti animali del lobo frontale, suscita immagini di paura e tristezza, e determina molte patologie tra le quali, in primis, la condizione melanconica”.

Poi nel Medioevo l'anoressia fu vista per un periodo come un traguardo spirituale da raggiungere, un'esperienza mistica che si poteva conseguire attraverso la mortificazione del proprio corpo, un modo di separarsi dalla carnalità per ricongiungersi a Dio. Ricordiamo infatti sia Santa Caterina da Siena che Beata Angela da Foligno, ma non solo: anche San Francesco mortificava il proprio cibarsi aggiungendo spesso della cenere ai propri alimenti, per non dare piacere (anche solo gustativo) alla propria carne.

Se poi nel 1500 il medico genovese Simone Porta aveva già descritto e studiato il quadro clinico dell'anoressia nervosa, è nel 1689 che si fa risalire la scoperta della malattia, attribuendola al medico Richard Morton, che la chiamava allora “emaciazione nervosa”. Da lì in poi si sono susseguite ricerche e studi, fino ad arrivare ai giorni nostri, in cui la malattia è stata riconosciuta di natura nervosa fin dal DSM-II (Manuale diagnostico statistico dei disturbi mentali).

È una malattia dalla portata enorme, perché ha caratteristiche sia psicologiche (depressione, ansia, disturbo di personalità) sia fisiche (alterazione ritmo cardiaco, osteoporosi, pancreatite, e altre), e richiede pertanto un approccio terapeutico multidisciplinare, sia a livello psicologico che fisico.

I legami familiari e amicali assumono un'importanza notevole nell'insorgenza della malattia, così come l'ambiente che circonda la persona: l'anoressia infatti è una sindrome legata al benessere, dato che non si presenta nei paesi più poveri dell'Africa, dell'Asia e dell'America latina, mentre si presenta in persone che migrano da nazioni più povere a nazioni più ricche. Pertanto non c'è da stupirsi che sia l'Occidente a vedere più casi di anoressia nervosa, passando dal 17% delle adolescenti del Giappone al 5,7% della Norvegia.

Ma dall'anoressia si può guarire, si può guardare dentro se stessi e poi risalire. È vero, è realtà: una realtà difficile, faticosa, ma tangibile. Ce lo racconta Silvia Varisco nel suo libro-testimonianza “C'era una volta – La mia lotta con l'anoressia”, in cui ci accompagna attraverso i momenti bui, per poi portarci verso la luce nuova di una nuova esistenza. Un libro importante, perché ci fa capire cosa pensa, cosa vede, cosa vive una persona che soffre di questa malattia allo stesso tempo moderna e terribile. Ma ci fa capire anche come attraverso molta fatica si possa anche rinascere a una nuova speranza.

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